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CORRIERE DELLA SERA
16 dicembre 2005
Censura, non annullamenti Una «mina» ridimensionata
di VITTORIO GREVI

Attraverso la sentenza depositata ieri, con la quale la Corte costituzionale ha accolto solo in parte i ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevati dalla Camera dei deputati nei confronti di due diverse sezioni del tribunale di Milano, è stata sostanzialmente ridimensionata una insidiosa mina vagante che ancora incombeva sul residuo itinerario dei processi milanesi per l’«affare Sme» e per l’«affare Imi-Sir». Processi ormai entrambi pervenuti in vista del giudizio di cassazione, dopo la conferma in appello delle sentenze di condanna emesse in primo grado a carico del deputato Cesare Previti e dei suoi coimputati, per gravissimi fatti di corruzione relativi all’ambiente giudiziario romano. I ricorsi sui quali si è pronunciata la Corte costituzionale avevano ad oggetto alcuni provvedimenti (diverse ordinanze, nonché le stesse sentenze di primo grado) con cui il tribunale di Milano aveva affrontato, disconoscendone in concreto la rilevanza, il problema dell’assoluto impedimento del deputato Previti a comparire, quale imputato, ad alcune udienze successive alla prima udienza preliminare di quei processi, in conseguenza dell’asserita concomitanza di impegni parlamentari. Problema tanto più delicato dopo che, con una sentenza del 2001, la medesima Corte aveva accolto un analogo ricorso, ma soltanto per una sorta di difetto di motivazione in cui era caduto un giudice milanese, là dove, nel disattendere gli invocati impedimenti parlamentari del deputato Previti, aveva dato esclusiva prevalenza (omettendo qualunque valutazione di doveroso bilanciamento) alle esigenze del processo su quelle legate ai compiti propri della funzione parlamentare.
Questa volta la Corte costituzionale, nel valutare il contenuto delle ordinanze con cui era stata data attuazione a quell’importante sentenza del 2001, ha operato alcune censure (per qualche aspetto anche opinabili) sulle ragioni addotte dal tribunale milanese a fondamento di tali ordinanze, soprattutto con riferimento a determinati criteri adottati per la valutazione della prova dell’impedimento di natura parlamentare (ad esempio per quanto concerne la ritenuta irrilevanza, allo scopo, di una sola lettera di convocazione del capogruppo alla Camera, ovvero la ritenuta necessità che l’impedimento attenga all’attività di votazione in Parlamento). Tuttavia, queste censure non si sono tradotte nell’annullamento in radice delle ordinanze del tribunale, ma hanno colpito solo le parti della loro motivazione investite dalle stesse censure, facendo così salve le altre parti, che non potevano rientrare nella sfera di giudizio della Corte costituzionale, trattandosi di parti riservate al sindacato del giudice penale. Ne deriva, a maggior ragione, che nessun annullamento ha colpito le sentenze di condanna emesse dal tribunale di Milano, e già confermate in appello.
Spetterà adesso alla Corte di cassazione, quando entrambe queste ultime sentenze milanesi giungeranno al suo esame (il primo appuntamento è fissato a metà 16 gennaio), verificare le eventuali ulteriori ripercussioni processuali della sentenza costituzionale depositata ieri. Ma sempre «alla stregua delle norme che disciplinano il processo», come ha esplicitamente riconosciuto la stessa Corte costituzionale. E, in proposito, appare fondamentale - anzi, assorbente rispetto ad ogni altra considerazione - il rilievo per cui, secondo le leggi dell’epoca, il legittimo impedimento dell’imputato acquistava rilevanza, in sede di udienza preliminare, soltanto con riferimento alla prima udienza; mentre, nelle ipotesi lamentate dal deputato Previti, si è trattato, sempre e comunque, di udienze successive alla prima.

INES TABUSSO