L'enciclica sull'amore
Il manifesto del Papa: la politica a Cesare.
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di Vittorio Messori
Giunto al pontificato alla soglia degli 80 anni e al vertice sia dell’approfondimento teologico che dell’esperienza ecclesiale, Joseph Ratzinger sembra deciso a non perdere tempo in questioni secondarie nella prospettiva globale della fede. Fautore della sobrietà, ha già sfrondato la sua agenda da impegni non indispensabili - viaggi, liturgie, incontri - e non intende neppure mantenere il ritmo di produzione dottrinale del pur amato predecessore. Preoccupato, poi, della situazione della fede (è l’indebolirsi di questa, secondo la sua diagnosi, che ha provocato la crisi della Chiesa), ha deciso di andare alle radici con la sua prima enciclica che, probabilmente, resterà a lungo l’unica. Così, ha scelto il cuore del cristianesimo, ha puntato dritto su Dio stesso, sulla Sua realtà e, di conseguenza, sull’immagine dell’uomo che ne deriva. La sua «lettera circolare» (questo il significato di enciclica) ai pastori della Chiesa, primi destinatari di simili documenti, focalizza l’attenzione su tre brevi parole di Giovanni che sono il marchio distintivo del cristianesimo e lo differenziano radicalmente da ogni altra religione.
«Dio è amore»; con la conseguenza che ne trae l’apostolo: «Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Dunque, un ricominciare da capo, dai fondamenti del credere. Scoprendo poi - ma solo dopo che la scelta era stata compiuta - che il tema è di drammatica attualità visto che ci tocca vivere «in un mondo in cui al nome di Dio viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza». Riferimento esplicito al fondamentalismo islamico; ma, forse, non solo. Il testo è breve, rispetto alla media delle encicliche di Giovanni Paolo II: ancora una volta, la scelta ratzingeriana della sobrietà. Le non moltissime pagine, peraltro, sono di una densità che provocherà commenti corposi da parte degli esperti. Qui, dobbiamo limitarci ad indicare una chiave di lettura, una sorta di piccola «istruzione per l’uso» del documento. Soprattutto nella prima parte - la più dottrinale, quella volta a chiarire che si intenda per «amore» - al lettore avveduto appare evidente che l’estensore probabilmente unico è stato Benedetto XVI in persona. Precisazione che non deve stupire: di solito, per questi documenti, il Papa dà schemi e indicazioni e procede all’ultima stesura, mentre la struttura è redatta da un gruppo di collaboratori. Stavolta, non sembra il caso: tutto sembra redatto sul suo scrittoio. In questa serietà diligente, Joseph Ratzinger ha confermato la sua natura «tedesca». Mentre tutto il testo mostra sino a che punto la sua prospettiva di fede (istintiva e poi approfondita a Roma) sia «latina». Nel senso, almeno, di «cattolica», nel senso più pieno. Va infatti ricordato che la legge che presiede al cattolicesimo è quella che qualcuno ha chiamato «dell’et-et». La compositio oppositorum , il «sia questo che quello», «l’uno e l’altro», la sintesi e l’equilibrio tra gli estremi, sulla scorta di Gesù stesso, uomo e Dio al contempo, venuto «per completare, non per distruggere».E sulla scorta della croce stessa: et-et per eccellenza, composta com’è da un braccio verticale e uno orizzontale. A questa visione globale, che a nulla intende rinunciare («Sono cattolico perché voglio tutto», mi disse una volta Jean Guitton), il protestantesimo oppone il suo «aut-aut», richiede la scelta, il rifiuto, la condanna di molti aspetti della realtà. Ebbene, già ad una prima analisi, questa prima enciclica del papa tedesco mostra sino a che punto sia operante la prospettiva della compositio cattolica.
Una unione degli opposti che sembra contrassegnare lo stile stesso che coniuga la consapevolezza pontificale a un tono quasi familiare, a espressioni talvolta quotidiane. Quanto ai contenuti, si sgrana la serie degli et-et: l’amore cristiano come sintesi dell’umano eros e della divina agape , dell’istinto carnale e dello slancio spirituale, in accordo del resto con la natura dell’uomo, sintesi inestricabile di corpo ed anima; un amore che si rivolge al contempo a una singola persona e all’umanità intera; che deve doverosamente dare e che, altrettanto doverosamente, vuole ricevere; che unisce mistica e prassi, utopia e realismo, culto ed etica, sentimento e volontà.
L’amore, poi, che si fa carità militante, a sollievo del prossimo (è il tema della seconda parte), deve unire preghiera e azione, spontaneità e organizzazione, annuncio di fede e servizio silenzioso, dono del pane materiale e del pane spirituale. Uno sforzo continuo per una sintesi difficile, sempre precaria, eppure per questo feconda, una tensione verso la completezza, una ricerca del «centro», dove gli estremi, unendosi, perdono la loro pericolosa unilateralità e divengono benefici.
Nessun aut-aut, dunque ma un continuo «sia questo che quello», e dove un’attenzione particolare è rivolta alla necessità di unire giustizia e carità. Alla illusione («ormai svanita», ricorda il Papa) di marxisti e soci che, per soccorrere l’uomo, occorresse battersi per la giustizia sociale, combattendo al contempo la «alienazione» della carità, Benedetto XVI dedica parole che ci sembrano tra le più toccanti e vere. Sono le sole che lo spazio ci permetta di riportare ma che danno idea della sapienza, non disgiunta da emozione, che pervade il testo:
«L’amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa renderlo superfluo. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine (...). Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica, che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale». Secondo una certa ossessione attuale, molti commentatori si eserciteranno soprattutto sui paragrafi che il papa dedica alla politica: espressione di amore essa pure, se ben intesa e praticata; ma che, ripete con decisione Benedetto XVI, non compete alla Chiesa in quanto tale.
Qui pure, campeggia un et-et fondamentale: Dio e Cesare.
La società ha bisogno di entrambi, nessuna contrapposizione tra loro, ma distinzione dei ruoli e delle vocazioni. Non vi è traccia di nostalgie per una christianitas dove Sacro e Profano si intreccino, c’è solo un’umile, discreta eppur convinta riproposta della dottrina sociale cattolica, che ha mostrato la sua sapienza davanti ai disastri delle ideologie politiche. Ma è cura del papa ripetere che, se la Chiesa propone la sua dottrina, è perché essa si basa «sulla ragione e sul diritto naturale»; su elementi, dunque, «conformi alla natura di ogni essere umano», quale che sia la sua fede o la sua incredulità. Una enciclica, dunque, nel segno dell’equilibrio, del «centro», della saggezza, dell’esperienza, della ricerca di ciò che è davvero fonte di pace, di gioia, di bene, di speranza. Se ci è permesso, con oggettività e senza alcuna tentazione apologetica: c’è, qui, una visione organica sull’uomo e sulla società che può convincere o meno, ma che non si riesce a scorgere da nessun’altra parte, tra orfani di ideologie crollate o adepti di religioni radicalizzate.
26 gennaio 2006