firstlast
00mercoledì 27 dicembre 2006 01:05
Ho scritto questo brevissimo racconto ispirandomi ad una poesia, nella sezione SCRIVI e/o COMMENTA POESIE, di una autrice: filodiseta. La poesia si intitola "ZITELLE" ; lo stesso titolo di questo raccontino.

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Il ciclico e cadenzato rito del ritorno alle origini, mi persuadeva ogni anno, in occasione delle vacanze estive e delle festività natalizie, ad affrontare un lunghissimo ed estenuante viaggio da un capo all’altro dell’Italia, per far visita a quei quattro parenti che avevano avuto il coraggio di rimanersene rintanati in un guscio di mondo dove il clamore della metropoli arrivava unicamente attraverso i rotocalchi o la televisione.
Così la vecchia “Giulietta” si ritrovava puntualmente due volte all’anno su quell’asfalto talvolta arroventato dal sole di agosto, altre reso terribilmente viscido dal ghiaccio delle improvvise gelate di inizio inverno.

Già dalla fine di novembre si avvertiva nei miei figli una eccitazione crescente che rendeva l’atmosfera particolarmente elettrizzante, c’era un susseguirsi di chiacchiericci e fantasticherie sulle loro improbabili “avventure” nelle viuzze e per le strade del paese assieme ai loro coetanei.

Puntualmente, nei giorni seguenti all’arrivo, anche io mi ritrovavo a percorrere quelle stesse viuzze che avevano rappresentato la “conquista” della mia libertà, quando ragazzino uscivo di casa e mi avviavo per sentieri tortuosi, attraverso le casupole basse di pietra e calce, alla scoperta della vita.

Quanto tempo era passato! A guardare quel paese si sarebbe detto pochi giorni.

In alto la parte vecchia, la chiamavano “centro storico” ma era la stessa di sempre, casine basse dai tetti in parte schiantati dal peso del tempo ed i muri sbrecciati e violentati dalle intemperie. Alla destra di questa, leggermente più in basso i caseggiati sorti all’inizio degli anni ‘30 con gli edifici, dai colori ormai stinti, che sovrastavano la parte più bassa, quella più recente, dove nell’immediato dopoguerra e nella prima metà degli anni ‘50 erano sorte le “palazzine”, precorritrici di quelle che sarebbero state le costruzioni in cemento armato degli anni successivi.

Nella metodicità del mio percorso, attraverso vicoli e stradine strette e ombrose, si sviluppava l’intera esistenza di quel piccolo centro; dalla casetta diroccata a fianco della piccola cappella quasi spersa nella campagna, alla piazza principale dove “ferveva” la vita nelle giornate di festa come queste che si apprestavano.
Mi soffermavo sempre, ad un certo punto del mio viaggio a ritroso nel tempo, davanti ad una costruzione, una anonima palazzina dai colori sfumati che rappresentava per me, una tappa d’obbligo, una sosta quasi come in una via crucis dove le “stazioni” erano rappresentate dai ricordi più nitidi che portavo con me.

Delina e Olga, nella palazzina dei ferrovieri abitavano al piano di sotto con il bagno condiviso, a mezza scala, non ho mai saputo se fossero sorelle, cugine, amiche o semplicemente due donne che avevano deciso di condividere la stessa sorte. Le “signorine”, come tutti le chiamavano in paese, le trovavi lì nel loro piccolo appartamento dalla porta sempre aperta da dove noi, bambini di allora, le spiavamo, restando sull’impiantito del pianerottolo, alla ricerca di qualche piccolo segreto che potesse rappresentare il nostro “bottino” quotidiano. Le vedevi là, una di fronte all’altra, sedute appena dietro ai vetri della finestra, al tepore del sole autunnale nell’odore di alito fermo e di spaghetti al dente che sferruzzavano lane decatizzate e infilavano nastri di raso pastello.

Nessuno a memoria d’uomo le aveva mai viste accompagnarsi, in una delle loro rare uscite, a qualcun altro e in molti si chiedevano il perché di quella volontaria clausura.
Di aspetto gradevole anche se non più giovani, si poteva dedurre fossero state, in passato, ammirate e corteggiate, ma nessuno, evidentemente, era riuscito a fare breccia nella loro intimità.

Il loro confabulare, sempre a voce bassa, il tintinnio leggero dei ferri sapientemente adoperati, l’arredamento essenziale, ma raffinato, che si confondeva con le decine di piccoli lavori a maglia posati ordinatamente sul tavolo o sulle mensole in legno, rendevano quasi irreale l’atmosfera di quella stanza dandole un tocco di armonioso vissuto.
Le “signorine”, era risaputo, avevano un concetto molto personale di “onorabilità” e ne facevano un punto di vanto; non si era visto mai un uomo entrare in casa, tra i pizzi e il chiaroscuro della saletta buona.
Durante il giorno, erano frequenti le visite di signore dai larghi sorrisi e dalle pance enormi che si fermavano il tempo necessario a comperare qualcuno dei lavoretti e a scambiare con le due qualche piccolo pettegolezzo; durante queste visite, pur dispensando sorrisi e complimenti stantii, queste ultime non alzavano mai lo sguardo verso la loro ospite e continuavano i giri di dritti e rovesci che avrebbero ormai potuto eseguire ad occhi chiusi.
Nessun uomo aveva mai avuto il lasciapassare per quelle sale e nessuno lo avrebbe mai avuto in seguito, fino a quando l’ultima di loro non andò via la vigilia di ferragosto del ’56.
Ripensandoci oggi, era singolare come quelle due donne non avessero mai abbandonato il loro appartamento, dal quale le uniche sole cose che si vedessero uscire erano scarpine vuote, di neonati ancora senza sesso.

Avrei voluto più volte narrare questa storia ai miei figli, magari come un racconto prima dell’abbraccio di Morfeo, ma mi ha sempre fermato il timore che le loro domande disincantate avessero potuto far crollare le mie fantasie, di loro coetaneo di un tempo, come i tetti delle ultime casupole di quel “centro storico” che amavo ancora così tanto.

[Modificato da firstlast 27/12/2006 1.13]

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