UN PO' DI PAZIENZA:IL LIBRO DI GOMEZ SUI RAPPORTI POLITICI DI PROVENZANO IN LIBRERIA DOPO IL 9 MARZO

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INES TABUSSO
00sabato 3 marzo 2007 16:23


Il nuovo libro di Peter Gomez ("I complici. Tutti gli uomini di Bernardo
Provenzano da Corleone al Parlamento" - Fazi editore), che doveva essere nelle
librerie gia' da ieri, lo sarà solo venerdì prossimo. Pochissime copie sono
arrivate a Milano, Roma e Torino, ma sono gia' state vendute.
Non sappiamo il perche' di quanto accaduto. Sappiamo pero' dall'autore che il
libro e' il frutto di otto mesi di accurato lavoro, e che racconta molte cose
che la tv non ci ha detto a proposito dei rapporti politici trasversali di un
boss che spesso ora viene presentato solo come un vecchio assassino, l'ultimo
rappresentante di una mafia arcaica ed animale.

Abbiate un po' di pazienza e segnatevi la data: l'appuntamento e' solo
rimandato al 9 marzo.

Intanto qualche anticipazione dall'Espresso e dallo Specchio:



L'ESPRESSO
del 2/3/2007
ALLA CORTE DI RE PROVENZANO
(ABBATE LIRIO, GOMEZ PETER)
a pag. 80/81

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LA STAMPA
SPECCHIO
03/03/07 - IN COPERTINA

Figli del boss

Angelo che vuole fare l’imprenditore e Paolo che va all’università di Palermo.
Il primo ligio ai doveri familiari, il secondo pronto a contestare il padre,
latitante nel vero senso della parola. In un libro dedicato al sistema di
potere mafioso, due giornalisti raccontano la vita dei ragazzi del «capo dei
capi». Cresciuti tra microspie, recriminazioni e tanti interrogativi senza
risposta

LIRIO ABBATE E PETER GOMEZ

Microspie e microtelecamere. C’erano microspie e microtelecamere dappertutto.
Le cimici non erano più grandi di una capocchia di spillo. Le infilavano nei
muri, dietro le prese della corrente, nei lampadari, sotto i tavoli; persino
nell’imbottitura dei sedili degli aerei, quelli che Angelo e Paolo, i figli del
Padrino, prendevano per andare in Germania. I due salivano a bordo e nelle file
dietro a loro c’era un poliziotto che, con gli auricolari dell’iPod in testa,
registrava anche i loro sospiri. Andavano a Genova con la nave e tutta la loro
cabina veniva microfonata. A casa degli zii, a casa di Salvatore, di Simone, a
casa di loro cugino Carmelo, era lo stesso. Sembrava un Truman Show, era come
il Grande Fratello. Uno entrava in bagno e pensava di essere osservato,
analizzato, sezionato. Angelo salutava la mamma, apriva la porta, usciva in
strada e si chiedeva in quanti stessero in quel momento guardando le sue
immagini. Paolo si sedeva al computer per finire la sua tesi in lingue moderne
sui Goti come oggetto di etnografia, azionava l’antivirus e si domandava quanti
spywares sarebbero sfuggiti alla scansione.

Di «lui», di «quello», di «iddu», di loro padre non dovevano mai parlare. Lo
sapevano bene. Glielo avevano insegnato fin da piccoli. Ma era dura: sì che era
dura. Era una violenza psicologica continua, senza sosta, senza soluzione. E
non sarebbe mai finita: gli occhi, i loro occhi, gli occhi degli sbirri, te li
sentivi addosso sempre. Anche quando magari non c’erano. Ma per te era lo
stesso, ti sentivi scrutato dentro, persino nei pensieri.

Eppoi quel signore: quello che Paolo si era trovato accanto al bar dell’
università, giù a Palermo, chi era quel signore? E gli altri due? I due tizi in
macchina che ieri avevano fatto inversione a U in piazza a Corleone. No, quelli
no, non potevano essere investigatori, troppo evidenti, troppo appariscenti. O
no? Magari adesso fanno così. Si fanno vedere, si mostrano, tirano la corda per
farti saltare i nervi. Almeno ci fosse stata tranquillità in famiglia. Ma
nemmeno quella c’era: con gli zii era tutto un discutere, uno spiegarsi, quasi
un litigare.

Però Paolo ce l’aveva fatta. Si era laureato e il ministero dell’Istruzione
gli aveva dato una borsa di studio: tra più di trecento candidati lo aveva
scelto come uno dei trentasei giovani che per un anno avrebbero dovuto
promuovere la cultura italiana all’estero. Ed era partito per il Nord Reno-
Westfalia, la sua seconda patria, il posto dove lo zio Simone li aveva
allevati. Paolo adesso lavorava in una scuola, faceva il lettore d’italiano.
Chissà, forse presto sarebbe diventato professore. Angelo no. Lui ci aveva
rinunciato.

Suo padre e Pino Lipari per anni avevano discusso per lettera della sua
carriera universitaria. Bernardo e «l’ingegnere» erano preoccupati perché le
cose non andavano come avrebbero dovuto. «Mi sembra superfluo dirti», scriveva
Lipari, «che sarebbe utile che il ragazzo s’impegnasse a portare a termine i
suoi studi, magari con qualche sacrificio. La laurea per lui sarà meglio dell’
eredità di un feudo e potrebbe affrontare la vita con una visuale diversa. Tu
capirai che qualunque iniziativa commerciale o imprenditoriale sarà sempre
sotto uno stretto controllo e poi ci vogliono un mare di capitali». Meglio
studiare, che tentare subito una carriera da imprenditore: «Le agevolazioni
sono tante e così pure i finanziamenti, ma in ogni caso per come sono adesso
impostate le cose, prima bisogna realizzare le iniziative con capitali propri e
poi lo Stato passa all’erogazione dei finanziamenti».

Ma Angelo, quando si metteva in testa qualcosa, andava avanti come un toro
senza che nessuno riuscisse a fargli cambiare idea. L’imprenditore lo voleva
fare a tutti i costi. Aveva aperto una lavanderia, la tintoria Splendor di
Corleone, e aveva coinvolto anche la madre. Quasi subito però aveva capito che
non era stata una grande idea. «Per il momento si riesce a malapena a coprire
le spese e in certi momenti ci si rimette di tasca», scriveva al genitore
latitante prima che il piccolo negozio venisse sequestrato in base alle leggi
antimafia. Per questo sognava che il suo «carissimo papà» gli desse una mano a
mettere in piedi un agriturismo. In una delle sue missive sequestrate nel 2001
al momento dell’arresto di Benedetto Spera, si legge:
Acquisto terreni: sono stato un po’ disubbidiente su questo argomento in
quanto sotto le feste mi sono visto con la persona interessata 512151522
191212154 e siamo rimasti che dopo le feste ci dovevamo vedere per discutere.
Tu ti ricordi di quel terreno di cui ti ho parlato a Scorciavacche che tu mi
hai sconsigliato in quanto terreno brutto, io non ho abbandonato di seguire l’
evoluzione dell’affare e mi fanno sapere che il proprietario è disposto a
vendere per 400 ml i 38 ettari di cui è composto. Ora, io so che i 400 io non
ce li ho e che il terreno non è un granché però so che ci sono persone che
hanno fatto affari con terreni simili e con cifre più grosse, [...] e così per
vie traverse ho cercato di sapere come si fa e mi viene detto che ci vogliono
gli agganci politici per potere farsi finanziare il terreno tramite prestito
trentennale per poi realizzarci oltre il prestito l’impianto di bosco che viene
finanziato con un contributo a fondo perduto di circa 8/9 ml ogni ettaro; in
più si potrebbe sfruttare Agenda 2000 per eventualmente realizzare delle opere
di agriturismo finanziate in parte dalla comunità europea a fondo perduto
[...]. Ora qui mi nascono i dubbi perché quello che ti ho nominato lo ha fatto
e possibilmente, se ci vado a parlare di persona, potrebbe essere disposto a
mettere in pratica la cosa e questa è una strada. Nel frattempo a Paolo della
zia Lina l’ho fatto informare con una sua conoscenza e c’è la possibilità di
arrivare ad agganciare tramite comunisti [sic] il direttore all’ispettorato
agrario.

La scoperta della lettera di Angelo al padre aveva però bloccato tutto. E la
polizia leggendola aveva anche capito che sotto i numeri, il «cifrario
monoalfabetico», come lo chiamavano loro, con cui il ragazzo celava il nome
della persona disposta a intestarsi il terreno, c’era Bernardo Riina o meglio
Binu Riina, il vicepresidente della cooperativa antimafia Unione, fondata da
Bernardino Verro, dirigente dei Fasci e sindaco socialista di Corleone, ucciso
da Cosa Nostra il 3 novembre 1915. Binu Riina: un vecchio amico del boss dei
boss, che nel 1969 aveva persino testimoniato in suo favore durante il processo
alla cosca di Luciano Liggio.

Angelo si era così messo prima a fare l’assicuratore poi, quando i suoi datori
di lavoro, spaventati dalla pubblicità intorno al nome della compagnia tedesca
che dava occupazione a un rampollo del capo dei capi, non gli avevano rinnovato
il contratto, ci aveva riprovato con gli aspirapolveri. Era diventato un
rappresentante assieme a un cugino acquisito, Giuseppe Lo Bue, suo quasi
coetaneo e figlio di Calogero, per decenni amministratore delle terre di
Corleone dell’onorevole di Forza Italia, Giuseppe Provenzano.

No, da lì, da Corleone, per il momento proprio non se ne poteva andare. Lo zio
Binu lo sapeva e lo sapevano anche gli uomini della Duomo che il 28 settembre
2005 ascoltano Angelo e Paolo Provenzano, mentre chiacchierano in una cabina
della motonave La Suprema, il ferryboat che li porta a Genova. Paolo sta
trasferendo tutte le sue cose in Germania e ha chiesto al fratello di guidare
con lui un’auto piena zeppa di bagagli.

Il rumore della sala macchine è un cupo ronzio confuso, i due figli del boss
stanno cenando. Sul tavolino pieghevole di formica c’è il cibo che Saveria,
loro madre, ha preparato a casa. I ragazzi lo guardano e pensano che nelle
ultime settimane le incomprensioni in famiglia sono aumentate. Le tensioni sono
ormai evidenti: a zio Simone, il fratello di Binu che li ha allevati in
Germania, è stato persino vietato di entrare in casa quando Saveria è sola. Ha
fatto troppe domande che non doveva, anche sull’operazione alla prostata di suo
fratello Bernardo, si è lasciato sfuggire molte parole di troppo. Ma il capo
dei capi lo ha scoperto, si è adirato e ha disposto l’ostracismo nei suoi
confronti.

«Lo zio Simone non si lamenta. Dice soltanto che ci sono delle cose mal
riportate oppure che quello [Binu] è uscito folle. Altra soluzione non ne ha»,
spiega Paolo.

«E le cose che sono mal riportate [secondo lui] da dove vengono? [Intende
dire] che gliele andiamo a riportare male noi altri? Giusto». «O la mamma,
Angelo».

Dunque zio Binu, in quelle prime settimane di autunno, è ancora lì,
vicinissimo a Corleone, tanto vicino che i suoi parenti lo vanno a trovare,
discutono con lui, parlano di un’abitazione che deve essere lasciata in eredità
a qualcuno, riaprono vecchie ferite, solo nascoste, ma mai del tutto
rimarginate.

Il suo arrivo, dopo quattordici anni di lontananza, in un nucleo familiare che
ormai era riuscito a trovare da solo i propri equilibri, sta minando dalle
fondamenta ogni certezza. E oltretutto Paolo, che ha solo ventitré anni e che
di fatto non frequenta più il padre da quando ne aveva nove, si è dovuto
confrontare con un genitore che è per lui un estraneo. Dice al fratello: «Tra l’
altro, ci sono sempre state cose che a me hanno dato fastidio: perché quando
lui [nel 1992] ha detto di partire [cioè di tornare a Corleone], siamo dovuti
partire a prescindere da tutti nostri cazzi di problemi e nessuno se ne è mai
fatto un baffo? [E anche] questa volta [quando] io sono arrivato [dal mio nuovo
lavoro in Germania, era] il primo sabato [libero], va bene? E siamo dovuti
andare là, siamo andati a finire là [nel suo nascondiglio]. L’interesse suo non
so quale sia. Io non vedo interesse in un colloquio, in un dialogo con lui:
almeno personalmente con me non c’è mai stata una cosa del genere. [...] Quando
mi dovevo laureare [nel marzo del 2005] e dovevo fare l’ultimo esame, non
gliene è fottuto a nessuno se io potevo avere i miei problemi e invece dovevo
andare a fare la bella statuina da lui. Perché poi io vado a fare [solo quello]
da lui. Tu [Angelo] bene o male, sei sempre stato più coinvolto, ma io da lui
ho sempre fatto la bella statuina, fin da piccolo». Il doloroso sfogo sul
difficile rapporto con un padre latitante (nel vero senso della parola) va
avanti per cinque minuti buoni. La cabina della motonave si riempie di
risentimenti, di recriminazioni, di frasi che forse Paolo vorrebbe non aver mai
pronunciato.

Poi il fratello maggiore lo interrompe: «Paolo, vuoi sapere come la penso? Lui
nel posto dove si trova ci si è davvero trovato per caso».

«E io dovrei essere contento di una cosa del genere? Io devo essere contento
che le cose succedano per caso? Io devo essere contento che ora si sta
ricostituendo questa sorta di unione [familiare]… per caso! Anzi no, io lo
chiamo caso e lui la chiama invece volontà di Dio [...] e poi neanche te lo
ammettono che è per caso, Angelo».

«No, assolutamente perché…».

«[Pensa di aver fatto per noi] tutte cose, lui. [Papà continua a ripetere:]
“ora ti racconto di quando [io e gli zii] eravamo piccoli”. [Dice] che suo
padre gli dava le bastonate e che lui a nove anni se ne andava a vendere i
[parola incomprensibile], e invece noialtri [abbiamo avuto tutto]. [Ma] quando
ti [fa] la domanda: “Ti è mai mancato niente?” [si può] mai aspettare una
risposta positiva? [Perché la fa,] perché cerca sicurezza? [...] Mi dispiace
[dirlo], mi dispiace».

Angelo non lo contraddice, ma invita riflettere. In famiglia, come in ogni
famiglia, tutti hanno le loro colpe, le loro responsabilità. Ce l’ha Saveria,
loro madre, «che ha subito tutte le decisioni, che non ha mai avuto il coraggio
di dire: “questa cosa mi piace, questa cosa non mi piace, facciamola così,
facciamola colì”». E ce le hanno anche loro, perché in casa Provenzano «hanno
subito tutti».

«Se poi ci sono anche delle responsabilità personali questo è un discorso. [Lo
possiamo] addossare al destino, alla volontà di Dio... [Ma] i dati di fatto
sono che noi abbiamo subito tutta una serie di situazioni e le continuiamo a
subire. Non ci si può né ribellare né provare ad aggiustare la croce per
portarla con comodo. [Io] non l’ho mai detto a nessuno, [...] ma quanti si sono
resi conto che la situazione, che abbiamo vissuto noi, è addirittura peggiore
di avere un padre morto?».

Quante domande, quanti interrogativi senza risposta.
«[Stiamo vivendo] cose assurde, Angelo. O assurdo sono io. Boh, mi piacerebbe
tanto saperlo certe volte. Mi piacerebbe veramente cominciare a capire la vita
come va… e se continua così».

«Quando ci sveglieremo e lo avremo capito avremo settanta anni ciascuno,
Paolo, e sarà troppo tardi».

Il rientro di Bernardo Provenzano a Corleone sta insomma facendo saltare
tutto. Visto dall’alto, il paese, che Cosa Nostra americana chiamava Tombstone
(pietra tombale), sembra quello di sempre. Invece nel segreto delle case,
dietro le porte chiuse, dietro i sorrisi di pastori e contadini, si consuma l’
ultimo atto. Mentre i dodicimila abitanti si preparano stancamente alle
elezioni, in primavera ci saranno le politiche e le regionali, il clan del capo
dei capi trasforma a poco a poco l’evento straordinario (il suo arrivo) in
normalità. Preparare i pacchi con il cibo, con i vestiti, comprare i giornali a
lui destinati, diventa un affare come tanti altri, come l’alba che manda tutti
i giorni nei campi a lavorare.

Nascosto da qualche parte nelle montagne dell’Alto Belice corleonese, Binu
trascorre il tempo leggendo e scrivendo. Con una calcolatrice Texas, sul retro
della quale un foglietto adesivo ricorda «un euro uguale a cento centesimi» e
«un euro uguale 1936,27 delle vecchie lire», stabilisce le percentuali delle
tangenti da dividere tra le varie famiglie. Per far passare le ore ascolta
delle audiocassette: Mario Merola, Mina, Claudio Villa, l’Ave Maria di
Schubert, la colonna sonora del Padrino parte seconda e, incredibile ma vero,
la raccolta delle Grandi canzoni dei Puffi. Spesso si rivolge al Signore: con
sé porta sempre decine di santini, una bibbia le cui pagine sono ormai
consumate dalle sottolineature e dalle note a margine, e un breviario. S’
intitola: «Pregate, pregate, pregate».




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