Ero per strada, in moto, quando la prima goccia mi arrivò sul naso. Me ne stupii, indossavo un casco integrale. Frenai, spensi il motore, slacciai la cinghietta dell'elmetto e liberai la testa. Volsi lo sguardo al cielo, insolitamente terso, d’un azzurro come non ne ricordavo dall'infanzia. Sentii un'altra goccia, calda, scivolarmi sul dorso della mano, fino all'indice. Sfilai veloce i guanti, convinto che si trattasse d'una qualche sensazione dovuta al freddo, guardai la pelle e vidi una riga rosso scuro, umida. La leccai, aveva un sapore metallico, agrodolce, inatteso, inconfondibile. Ne arrivarono altre due, una sul petto l'altra sulla fronte. Poi sulle cosce, le ginocchia, un piede! Io che calzavo stivali in gore-tex! Percepii il battito del cuore accelerare, mentre abbassavo il cavalletto. Scesi dalla moto, confuso cercai riparo sotto un balcone: la pioggia s'infittiva. Anche altra gente cominciava ad accorgersene, notai pedoni correre dentro ai negozi, uomini e donne uscire dalle auto, gridando, per rifugiarsi nei caffè. Persone affacciate alle finestre si domandavano a vicenda come potesse quello schifo colare addosso a loro, chiusi com'erano in casa. Accanto a me una donna, terrorizzata, stringendo il figlio in lacrime mi supplicava, con lo sguardo, di tranquillizzarla. Ero interdetto, impietrito nella conta delle gocce che con estrema precisione, una dopo l’altra, centravano le poche parti ancora asciutte del mio corpo. In ognuna di esse sentivo concentrarsi lo stesso imminente rischio d'impazzire che da bambino, ad ogni temporale, fugavo recitando una curiosa filastrocca, ch'ero sicuro di avere dimenticato ed ora, invece, con sorpresa mi ritrovavo a ripetere mentalmente. Tremavo. Come poteva quell'assurdo acquazzone trapassare il metallo delle auto, il cemento dei palazzi, perfino il gore-tex? Perché non impregnava gli alberi, i marciapiedi, le aiuole? Non l'ascoltavo battere più forte sulle grondaie, sui vetri, sull'asfalto, eppure... era la pelle a dirmelo: l'intensità della pioggia cresceva. Ciascuno in preda al proprio sgomento, restammo muti per ore ad osservare il volto del vicino, goccia su goccia, velarsi di quel denso, lucido omaggio del cielo, nella più oscena nudità che da quel giorno ci accomuna.
E' passata una settimana, adesso. Potrebbe davvero trattarsi di sangue, nessuno ha trovato il coraggio di appurarlo. Non cessa di cadere dappertutto, la pioggia rossa, e tuttavia non se ne parla. Sarà che in molti si teme ormai d'essere usciti di senno. Come spiegare altrimenti, il pianto disperato che, senza ragione, sempre più spesso ci scuote le viscere? Che sia un'allucinazione collettiva? Se sì, per quale enorme senso di colpa, da quale nuova efferatezza origina l'incubo, stavolta? Immaginare quale possa essere la risposta non fa che acuire le nostre paure. Speriamo che smetta, dunque: all'ipotesi di un secondo diluvio, l’ultimo prima dell’apocalisse, credono in pochi. E intanto andiamo al lavoro, come sempre. Come sempre cambiamo canale, alla ricerca di buone notizie che più nessuno riesce ad inventarsi. Se non ci riguardasse, potremmo riderne, di queste facce non più note, non più credibili, nè attraenti. Tradiscono tutte un uguale senso d'impotenza, il medesimo smarrimento: sul bianco smagliante delle dentature rifatte spicca orribilmente quel rosso liquido che le contorna. Non è una questione di trucco se manca l'audience. Persino in famiglia si fatica a riconoscerci, noi che da tanto evitavamo d'incrociare sguardi che fossero meno che assenti. Proviamo ad illuderci che nulla sia cambiato. "Staranno cercando una soluzione..." pare con questo volersi confortare, - oppure sta chiedendomelo? - mia madre. Si dibatterà. Basterebbe una spiegazione appena un po’ scientifica, per rassegnarsi al fenomeno, al rosso che fuori ci ha resi come dentro: viscidi. Tra qualche tempo gli esperti annunceranno magari ch’è sangue, sì, ma non dobbiamo preoccuparci. Non ci diranno il gruppo, per evitare discriminazioni, ma insisteranno che non c’è nulla, nulla da temere: rientra anche questo in quell'ordine di cose cui, per nostra natura, come in passato riusciremo ad abituarci. Un altro passo nel percorso evolutivo. E meno sperduti di quanto siamo oggi, nel sangue sguazzeremo. In fondo di cose ne abbiamo fatte. Riprenderemo a farle, le nostre cose. Le solite cose. Se Dio vuole.
[Modificato da raelmax 14/09/2006 14.44]