La banda di Fossati suona ancora il rock

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martee1964
00lunedì 2 marzo 2009 09:41
E’ un bel cantare a memoria, quello di Ivano Fossati. Cantautore sui generis e suo malgrado: prima musicista, poi paroliere. Uomo dalle molte rivoluzioni, alla ricerca perenne di qualcosa che smuova il cuore e sparigli i capelli, come la brezza della Lusitania, da lui cantata quasi vent'anni fa. Percepito dai più come la quintessenza del musicista colto, Fossati è in realtà artista dall'impostazione rock. Aveva ricominciato a fiutarne l'aria con Lampo viaggiatore, ha ripreso a suonarlo con L'Arcangelo, è tornato a inseguirlo a tratti nel non perfetto Musica moderna. Il suo tour ribadisce questa sua esigenza di risciacquarsi nel sacro fiume del rock. Scompaiono gli archi, ieri di Mirko Guerrini e l'altro ieri di Mario Arcari, aumentano le chitarre (tre). Torna l'amico di una vita, lo storico bassista Guido Guglielminetti.

Fossati non lo direbbe mai, ma questo live suona come le atmosfere de La mia banda suona il rock, inteso come disco e non come canzone. Era trent'anni fa, ma ancora oggi suona splendidamente. E non è un caso se, alla fine, compare per la prima volta dal vivo una perla di quell'album, Di tanto amore. Riproposta fedelmente, senza cambiare quasi nulla, come capita ai brani nati con la fortuna di bastare a se stessi.

L'apripista è il 19enne Gaetano Civello, voce non comune e buoni testi, scoperto da Pietro Cantarelli, tastierista e produttore di Fossati. Poi, il concerto. La prima parte è tutta per il disco nuovo, sette brani sugli undici di Musica Moderna. L'episodio migliore, L'amore trasparente, viene sparato subito, e forse è uno sbaglio perché il pubblico è ancora freddo. Le nuove canzoni suonano meglio che su disco, comprese quelle non esattamente irrinunciabili (D'amore non parliamo più). Ed è dal vivo che deflagra, in tutta la sua la sua maestosità, il brano - Cantare a memoria - che in studio aveva solo lasciato intuire la sua potenzialità non comune.

Si vede da lontano che Fossati, oggi, si diverte anzitutto con la chitarra in mano, rockeggiando e blueseggiando, ne Il paese dei testimoni (j'accuse sulla delazione a cui mostra di essere legatissimo) come nella più riuscita La guerra dell'acqua. Il pubblico, soprattutto femminile, lo vorrebbe invece inchiavardato al piano, e lui solo ogni tanto acconsente. Ad esempio nell'uno-due La costruzione di un amore/Una notte in Italia: la prima quasi in apnea, la seconda immutabile. E sono applausi, come per Buontempo, con un surplus di spensieratezza che stride - deliberatamente - col brutto tempo della serata romana cui abbiamo assistito.

Qualche canzone, nella seconda parte, non appare all'altezza del livello medio, smisuratamente alto (Ho sognato una strada, L'arcangelo). Dettagli. Basta Discanto, uno dei testi più geniali della musica italiana, riproposta in una versione «demoniaca» con tanto di teremin (uno dei molti strumenti esoterici cari a Fossati), per capire che si è di fronte a un artista dal talento e dal percorso non comune. Tale epifania è riverberata da altri episodi, Italiani d'Argentina e L'uomo coi capelli da ragazzo, Lindbergh e I treni a vapore, fino alla conclusiva La musica che gira intorno. Quasi un mantra liberatorio: «Sarà la musica che gira intorno/ quella che non ha futuro/ o saremo noi che abbiamo nella testa/ un maledetto muro». Quel muro che Fossati, con salvifica ossessione, prova ogni volta a oltrepassare. Quasi sempre riuscendoci.
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