La Scimmia Randagia di Maria Grazia Calandrone - Crocetti Editore

f.almerighi
00giovedì 9 aprile 2009 14:10
Ho letto questo libro di Poesie dalla copertina bianca, mi piacerebbe se altri lo leggessero. Traggo dalla rete una recensione di G. Lucini e alcuni estratti dal libro. Un libro gigantesco.

Non ha avuto fretta di pubblicare, la quarantenne Maria Grazia Calandrone, ma ha voluto pubblicare bene. Questo sembra suggerire la veste, la mole, la cura di questo volume nel quale Maria Grazia tenta un'impresa di alto contenuto tematico, ossia quella di raccontare l'uomo, il suo essere nel tempo e nel mondo, a partire da prima della nascita (come simbolo, dunque). L'uomo-essere, un pensiero, un tema che le cresce dentro come il frutto della maternità, con la maternità. Non so cosa ne pensi l'autrice di questa mia impressione, ma a me sembra che questa esperienza, che poi è fondamentale e dolcemente sconvolgente per ogni donna, sia il quadro entro il quale ella ha ricostruito, a volte in modo onirico e a volte con accenti più realistici, l'intera epica umana a partire dal femminile, con lo sguardo del femminile, rivendicando con forza i valori del femminile. Con una fertilità poetica che a volte sembra quasi febbrile, Maria Grazia è riuscita a dare una base poetica seria e concreta alla visione femminile del mondo, costruendo un orizzonte (anche di antropologia e non solo di poesia) che di fatto costituisce un "altro" modo di vedere la vita. Non sto dicendo che Maria Grazia Calandrone sia l'unica donna che ha fatto questo: sarebbe ingiusto verso migliaia di brave intellettuali e poete. Voglio soltanto dire che per la sua limpidezza, per la sua precisione, la sua essenzialità, e anche il suo valore che a mio avviso è indiscutibile, questo libro può essere considerato un importante riferimento, un orizzonte forte del "diversamente da" la cultura maschile. E lo fa senza contrasti, senza polemiche, senza mai far trasparire questa intenzione (che potrebbe anche essere inconscia o neppure voluta: non è qui l'intenzione dell'autrice). Il risultato viene raggiunto, e io lo registro come tale, perché l'autrice ha saputo esprimere il suo orizzonte senza cadere nei trabocchetti, nelle fuorvianze, nei ripensamenti e dunque scrivendo una poesia "se stessa", genuina, assolutamente al di fuori da una "letterarietà" che ne avrebbe costituito il fallimento (la letterarietà è, infatti, volenti o nolenti dominata dalle categorie del maschile, da quell'orizzonte di cultura e di senso).

Ecco dunque perché Maria Grazia ha fatto bene i suoi conti, nel senso che ha molto riflettuto prima di scrivere questo libro: un libro che - sembrerebbe - è nato velocemente, in pochi mesi di lavoro (almeno nella sua identità di opera) ma che dimostra di avere alle spalle una lunga riflessione antropologica e anche filosofica. Un libro colto, maturo, dalla spiccata personalità, anche se si tratta di "opera prima" (l'autrice pubblicò già nel '98 Pietra di paragone, per i tipi di Tracce, ma si trattava di una pubblicazione-premio per un concorso letterario). Maria Grazia si impone dunque alla nostra attenzione come una significativa promessa di un arricchimento del nostro panorama poetico e sono convinto che il tempo mi darà ragione.

Se poi andiamo a sondare il verso usato dall'autrice, notiamo subito la sua singolarità. Verso che sembra nervoso, nonostante il tono complessivo del libro sia alieno da puntate all'enfasi, agli eccessi drammatici: tutto sembra fluire in un discorso come sussurrato (anche se, a dire il vero, le cose tremende e vere sono sempre tremende e vere anche se sussurrate, non occorre gridarle). verso irregolarissimo: a volte lungo alcune righe, a volte brevissimo: ma c'è una ragione in tutto questo e sta nel corpo che partecipa al verso, nel respiro polmonare, fisico, unito allo stato emotivo che spezza a volte brutalmente, con cesure, senza mai "alzare la voce". Anche qui, si sente la lunga e paziente riflessione sul verso, sul "proprio" verso, quello che interpreta il sentire.

Un libro dunque completo, in tutti i sensi, permeato peraltro anche, come si diceva, da quella gioiosa e trepida (e a volte pensosa) attesa, da quella passione contenuta di madre che osserva la sua creatura, s'immedesima in lei, torna alla sua infanzia, vola nel futuro, certo con una specie di nervosismo, che però rende più l'idea di una sollecitudine e di un'attenzione amorosa, non certo di una nevrosi.

E poi l'amore. Nel libro compare molte volte questa parola, usata nei modi più sottili e, a mio modo di vedere, sempre inediti perché abbinata, sfumata, disciolta in situazioni, come a indicare il suo ruolo di cogenza, di sale che dà sapore all'insipido. La parola "amore" usata senza lo scadimento del dire per dire, ma sempre con forte connotazione, che la fa insomma risorgere dalla piattezza nella quale l'ha relegata la comunicazione massmediale.

Un bel libro dunque, che fa onore anche al suo editore, Crocetti, che dimostra sempre di avere l'occhio lungo nelle sue scelte editoriali.





da: La scimmia randagia





consonante del pianto



L'incontro (casuale, mentre avanziamo immersi nel quartiere del sole) con una persona da tempo dimenticata arriva a dissolvere parzialmente l'idea che ci eravamo fatti della nostra esistenza. Eppure, avevamo badato alla obbiettività, sapendo bene che il tempo, potendo reggere alla luce dei giorni: soltanto come idea e ricordo, è una materia modificabile.

Eppure non ci siamo fatti mancare occasione per sistemare a fondo le linee pur sommarie della nostra coerenza. Ma questo incontro sta come un'isola dentro i nostri fondali, porta addosso - come un grande cetaceo - altri esseri, rotte. relitti, la solitudine spiaggiata dei ponti dell'adolescenza. Se ne deduce che l'umore raggiante dilaga in senso inverso dal presente, si affianca (non ostante la nostra vigilanza all'esperienza e alla concrezione del dolore. Se ne deduce che siamo programmati per dimenticare il dolore.



La luce discende sul corpo

dai propri occhi - mentre mimetizziamo

con le piante e il tempo (la lettera

degli anni) sopito al fondo della scena: quel corpo

più piccolo, quei pochi statici tratti

un altro sé - ma uguale

a in sogno ricorrente

noi, una tiepida paura

nel solco della propria soluzione agonistica.



Eravamo tra i lampioni dell'argine

loro irriconoscibili aggettivi, tempo

scandito dalle abitudini. Simili - cosi fermi -

a luci ignare o clausole

testamentarie. I portici

proteggevano i forni dalla pioggia marina. Accanto al mare, pioggia e terra

sono attutite

dalla somiglianza: anche i nostri pochi anni d'amore erano acqua

che si respinge ai poli, va a ingrossare un sinonimo che cresce

pesci monologanti

e luce smerigliata di altura. Cosi l'argine è lento

ai fini della morte, inversamente portato a cadere.



La rovistata purezza dell'edera mischiata al sole delle facciate

ingiallite, come d niente che brilla tra i capelli

dei bambini - o gli aerei

che volano bassi

nel cielo scivoloso. L'udito-spazio

nella campagna bianca e giubilante

sopra la nemesi e la carità dei nostri occhi.



La superstizione si fonda su un ricordo non completato - se un giorno abbiamo

[ ritirato gli occhi di fronte

al peregrinante brusio di una folla, a una somma di anni

forse ancora esaudibile. Emanava una nenia dall'esito incerto

dai muri

della pensione milano

messa come di slancio

nel vicolo, tra gli alberi

telegrafici e il rullare continuo di maioliche

al passaggio dei treni. Eppure l'aria si ammucchiava più fredda nei cavi

delle scapole sotto le magliette, come spostata

da un fischiare di navi verso il faro. Il richiamo del largo alla terra degli uomini. Se uno

tra i passeggeri avesse rappresentato l'ottimismo dei mari che sminuzzano i solidi

[ e non conservano

che attutite confidenze di relitti, avremmo dimenticato

tutti, per imitazione: da quell'androne di albergo di ringhiera sterminato

dal funerale, ogni alleato avrebbe sparso semi

in un'anima ancora gutturale: collettiva. Avremmo stretto mani

senza volgere gli occhi al carro

nero che se ne andava e ci portava via.



L'incontro ci ha costretti a ricordare anche le consonanze, le belle gite tra i vigneti sabini presi dal sole settembrino del 1979, la luce corta del primo pomeriggio durante il quale, isolati, abbiamo incominciato a riprodurre su carta il panorama - che splendeva perfetto, prima che vi calassero le ombre: avevamo già in noi una nostalgia preventiva, il concetto di un futuro mai uguale e per ciò doloroso, se anche migliore. Giorno per giorno perfezioniamo il nostro testamento.







STANZE



I

(sala travaglio)



La terra è lontana, un bisbiglio

nell'intestardimento della notte che chiude i primi fiori

lungo i sentieri. un corpo bianco stretto dalla notte

ti chiude. Dolore: una moria privata

della storia: ma un mestiere

imparato: affermazione

del tempo. Volentieri asseconderemmo la manovra

che estrae tempo umano

dai corpi, scaveremmo ne1 nugolo fitto delle coperte

la piccolezza di una similitudine - volentieri, se già non fossimo nati.



La frana innaturale della grandine all'alba apertamente

reclina sulla propria reliquia. L'ordine perfetto di un corpo

fuori

dal proprio limite continua

la natura, l'altro dolore, il puro dolore

dell'altro. Vedo nel tuo dolore la tua salvezza, mia

bestiola cieca - la tua forza

disperata di passare - fatto oceano a spallate

nello stretto del sangue. Questo piccolo grumo di fango e saliva risale la sponda

da dove è venuto. Ora che siamo perduti

e liberati secondo natura, siamo sonno

che nega, ora: mentre ricuciono i monconi. Per primi

sogno navi di gomma e saltimbanchi.



Di notte insieme agli altri vedrai il mondo

dal quale veniamo: porta sull'aria

che ha odore umano di capelli

e mattine tremate

dal passaggio di creature che sono a volte felici.





II

(sala parto)



Col peso del creato sul nostro petto

tra le vetrate ancora fredde.

Ora il mondo è più grande, un camminare eretto e secolare

lungo l'idraulica della notte

restia a muoversi

a compassione. Siamo fatti di una materia fragile

come l'anemia e l'oro.



L'acqua e le ombre che sopra l'acqua

svernavano

nel grido inconsolato della nascita; vento largo che impregna le zolle,

il gusto reciproco di mancarsi con la voce (smagliata dall'attraversamento

dei recinti). Le case, i corpi: natura che semplicemente si addormenta, converge

là dove sporge il sole,

l'azzurro che non ha finito di cadere

sulla fronte

che rivolgi alla terra: l'anima

roderà anche le tue calcagna

come una lupa. Sarebbe saggio

lasciare la sua intemperanza fuori dal tempio e sopportare il perdurare Solo

del suo pensiero (un alone canoro) in torno al capo, partire

dalla scena dell'incontro

in questo luogo che non affaccia sul mondo.



Sedute in fila ad alimentare il creato

sotto gli occhi dei dirimpettai

che indicano oltre le montagne distrattamente qualcosa

salire dagli appezzarnenti.



Porgiamo lui come una parte piccola di noi

ferita da una maschera sentimentale che andava e veniva

tra le lamiere impennate dal vento delle nostre decadi. Vele

di latta in mezzo agli alberi

da frutta e al fumo

temperato dei comignoli

stampato sui muri come l'anello d'ombra dell'altalena

ricavata dalla ruota di camion - d'inverno rasa

fino all'orlo infiammabile

di grandine e larve. Urtava nello spigolo dell'anno (l'ultima festa

comandata prima di andarsene

insieme a un dispiacere: il tempo che passa

come il piccolo attrito che adesso asciuga nelle tue narici

sotto il mio volto inconsolabilmente fedele.







condanna alla fortuna o scena di rottura



I bambini limitano il nostro infinitesimale scivolìo nella morte

con le loro parole con le loro braccia

piene di tutto l'invisibile

venuto dai solchi senza specchiamenti di nuvole dell'infanzia per trapiantarci sull'acqua

in qualità di dicerie terrestri che si imbastiscono come grandi archi per essere

[ dettate dalla bocca del cielo. La prosa

retroattiva del mare sigla più del metallo delle armate

le ortodosse colonie abbeverate di terra e i sorsi copiosi più ancora dei cantieri

navali inarcati sugli affluenti, circondati da affioramenti di teste piccole

dall'umore salutante. Siamo arcipelaghi cinti di luce, fiumi senza tribù,

[ né relativo rimpianto.



La sera logora l'intavolata

ombra delle cabine sulla sabbia: come il piede dell'uomo, la luce

fa uno strappo tra il grigio e i gommoni

che l'obliqua copisteria del tramonto sommariamente trascrive su gobbe terrestri

o pedane - ma lascia intatta quella forma di casa copiata sul mare, odorosa

di resina e saponi altrui, del cielo che si scarica a spintoni.



Siamo membri del corpo materno nello scamiciato a fiori

e siamo esseri pericolosi, diritti, veli neri tesi tra i chiodi

che non gettano ombre. Solo uno

si professò innocente: il legno rugginoso delle barche porta a riva l'odore del suo oblio

e l'imposta nerastra pressione del suo palmo

in blocco alla buia legione della larga aria; la sua bella testa

(remigando la paglia dei capelli al contraccolpo climatico sulla bocca

del forno in gesso del sole) taglia il Luogo Comune; con le mani

fa approdare il collasso dei pescatori (specie di Simone

detto Pietro) - perché il mare salassa i terrestri

e i pescatori stanno

al mare come al cielo

l'affettuosa montagna

sta, assorbendo e drenando

l'ansante

(inizio di) perturbazione divina.

Questo, se dio

solo abbassa la fronte sulla corteccia del nostro Albero

Maestro - e ci sogna.



Un ritardo nel gettito solitario e intelligente della pioggia

annunciata dall'asciuttezza di tutti i canali - e comunque imperfetta, là dove cade

nel sonno intrauterino e irriga la sua pace apocalittica di cratere spento.



E lei che parla dentro - alla ripresa di metà mattina - dei cari, di quelli

cui basta una incrinatura per scivolare verso la catastrofe, nel vento dei mari

baltici

tra pali secchi sferzati

dal bianco inesistente del dolore. Fin che perdonano alla nostra assenza il gesto

[ di farsi scoprire a cose fatte.



tadzio71
00venerdì 10 aprile 2009 11:58
Grazie per avermi permesso di conoscere meglio questa poetessa il cui linguaggio mi affascina sempre.

Leggerò senz'altro il libro che consigli



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