Recensione di Marco Righetti a: gli anni delle donne, un mio e-book.
Il libro è in vendita sul sito della Feltrinelli, ma se qualcuno lo desidera può richiederlo a me inviandomi l'indirizzo di posta elettronica, glielo invierò (gratis, naturalmente...)
Gli anni delle donne: note a lettura
di Marco Righetti
Attraverso sentieri di una geografia concreta, produttrice di luoghi ed esistenze precise, che versano sulle righe la loro storia, “Tu conservi il perimetro di vento/di certe bambine deliziose che hanno pianto”, Polvani dipana la sua versione “sottotraccia” e irruente, nuda e “pronta a ghermire lo sbilenco sibilare del sole”.
Già da quest’assaggio si intuisce la cifra: l’occhio apre immagini ma si affida alla parola, ne accetta paziente il velo, aspetta che le frasi si sciolgano. E così scorrono territori, colori, stagioni e ombre, spiragli e silenzi, è tutto nelle regole di un gioco fine per palati attenti, capaci di apprezzare la precisa codifica dello spazio e la genesi della poesia: ”ci sono battute che ricordano lo spalancarsi / di finestre e la mela che stai sbucciando assiste /al tuo improvviso ridere. È da qui/ che l’arrampicata degli anni assorbe le vitamine.”
È da versi come questi che parte il senso nuovo, l’elaborazione della memoria, di un cammino che costeggia figure di donna, e le offre con pudore e garbo.
È la costruzione di una verità.
Polvani ha assorbito voci di un’umanità varia, e ora le narra, le indaga nelle loro “promesse di fertilità” poetica, quella che nasce per esempio da metafore, accostamenti, innamoramenti quali: “le precede il fiume di una musica rotonda,/che si sgrana in forma d’acini d’uva, /polpa d’anguria, si dissipa nel segreto dei chicchi/di una melagrana, si allarga nel respiro/ di un’erba invaghita della luce.”
Fino a giungere alle luminazioni piane e folgoranti, “il tuo passo spalanca meravigliose foreste”, o altrove: “quegli occhi di mia madre hanno incrociato/la polvere delle soffitte negli spiragli di luce”, o ancora: “fa di aprile un’arma che inaugura/campi di girasole.”
Ci muoviamo sul terreno di un’aderenza schietta alle tracce raccontate, perché è questo, ci dice Polvani, il miglior modo per farcene vedere altre. La sua poesia si incarica di questa visuale, che non è mai visione: non ne ha bisogno.
E proprio in virtù di quell’aderenza raggiunge subito l’effetto, facendoci partecipi del suo perimetro di vite incontrate e qui finalmente vissute. Quando terminiamo la pagina il poeta ci sta già portando verso l’altro: come se lui, conoscendolo, fosse lì lì per dirlo a sé e a noi.
Da questo dubbio fecondo nasce l’empatia con il suo pianismo di luci e squarci, con la matematica di un disegno nitido, in cui è già apparentemente tutto risolto, tutto assunto in riflessione compiuta: ma è solo un inizio, se è vero che poesia è l’avvicinamento massimo alle cose e il tempo immediatamente seguente, così nostro, così estraneo.
La definizione del percorso, anche ove è drammatica, non concede altro che se stessa, le sigle di una perdita irrevocabile: “conosco il colore/delle caramelle, per me non è contemplata/l’ipotesi di avere voce ma solo/una sconfinata timidezza”. Oppure: “la bellezza non è un lasciapassare. Volevi essere accolta/hai scelto il vuoto di un cortile, lo spazio/bianco di un lenzuolo”: qui il volo delle immagini appartiene a chi legge, l’autore ce lo offre intatto.
E diventa nostra responsabilità.
Polvani non ricorre alla sottrazione, preferisce rifinire la definizione, eppure resta sempre in un seminato felicemente germinativo: “è lì che abita / in forma di zucchero l’orto di tua madre/ e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio/ delle alpi e l’insalata/ha il suono familiare di una porta che sbatte.”
La limpidezza sorprendente del colloquio sgorga già pronta da segnali ben esposti, è un fluire che pasce se stesso e ferve del seguito: “i segni del tempo si depositano/ sulla tua pelle come una polvere dorata./Specchiano l’adesione dei miei autunni.”
La carrellata di pennellate sode, calzate su misura delle donne che racconta, inquadra un humus pullulante, che già ci sentiamo addosso: anche noi fatti di terra e “di quelle dolorose vertigini che la bellezza possiede come corollario”.
La felicità del poeta non è che lo specchio di quella che ha osservato: “Il margine della collina conosce la felicità dei corvi./La violoncellista conserva il sapore di una festa d’aria.”
La parola di Polvani diventa vicissitudine e incide lo sguardo, slargando le periferie necessarie; impressiona la lastra del cuore, prima ancora di quella oculare, e ci costringe a una resa, a un consenso, a un entusiasmo.
2 settembre 2012