ROMA PAPALE
Appendice prima
Statistica del clero Romano fatta nel 1849
Avevamo promesso nella prefazione di dare una nota di quello che il clero romano introita a titolo d’incerti, ma riflettendovi meglio sopra, ci siamo ricordati di avere fra le nostre carte i dati statistici sul clero degli Stati pontifici, fatti nel 1849, sui documenti officiali, per ordine del governo della Repubblica romana, e siccome quei dati non furono pubblicati, perché furono finiti appunto quando il governo pontificio fu restaurato per le armi francesi; così non crediamo cosa inutile pubblicare tali dati in quest’ appendice.
Il valore territoriale di tutto lo Stato romano, come era allora, comprese le Marche, l’Umbria e la Romagna, dava in catasto la somma di centonovantacinque milioni di scudi romani: la popolazione era di tre milioni; per cui la quota di ciascun individuo sarebbe di scudi sessantacinque. Il clero, cioè preti, frati e monache, che godono tutti i medesimi privilegi, contava in tutto lo Stato sessantamila individui, per cui il clero stava come uno a cinquanta in ragione della popolazione.
Le possessioni del clero in beni fondi, erano segnate in catasto per una cifra di quarantacinque milioni (si parla sempre di scudi romani). Ognuno sa che la cifra nel catasto romano è il minimum del valore reale dei fondi; ma riteniamo questa cifra per vera, e diamo a questo capitale una rendita al cinque per cento, ed avremo che la rendita dei fondi del clero monta a due milioni duecentocinquantamila scudi annui.
Il clero dello Stato romano possedeva in bestiami il valore di due milioni di scudi, che messi al cinque per cento dànno una rendita annua di scudi centomila.
La rendita del clero proveniente da canoni, censi, livelli, appodiati ecc., ascende alla somma di annui scudi trecentomila, che al cinque per cento rappresentano un capitale di sei milioni.
Al debito pubblico sono segnati venticinque milioni di scudi di capitale a favore del clero, e lo Stato pagava in favore di esso annui scudi un milione e duecentocinquantamila.
Ma non siamo neppure al principio dei nostri calcoli: fino ad ora non abbiamo calcolato, che le possessioni che dalle mani dei laici sono passate irrevocabilmente nelle mani del clero, calcoliamo ora il danaro che il laico, o per forza o volontariamente, dà al clero.
Ogni famiglia che voglia fare un prete deve costituirgli un patrimonio, il minimum del quale è fissato in scudi cinquecento di capitale: nello Stato romano, come era nel 1849, vi erano quarantamila preti, ventimila dei quali, appartenendo ad ordini regolari, non hanno bisogno di patrimonio, ma hanno spese di vestiario, di professione, il livello che la famiglia deve costituire ai frati non mendicanti, cose tutte che in questo conto non le calcoliamo, sebbene unite insieme costituiscano una somma significante. Restano per il patrimonio ventimila preti secolari: togliamone una metà che si ordinano a titolo di beneficio, ne resteran diecimila cordinati a titolo di patrimonio. Pochissimi sono coloro che hanno il modesto patrimonio di cinquecento scudi, ma calcoliamo il patrimonio di ciascuno a questa infima somma; ne viene che le respettive famiglie han dovuto riversare al clero cinque milioni di scudi, che al cinque per cento dànno la rendita annua di duecentociuquantamila scudi, che dalle mani dei laici sono passati nelle mani del clero.
Se una giovane vuol farsi monaca, anche conversa o servente, la famiglia è obbligata a dare al monastero la dote: il minimum di queste doti è di scudi trecento, il maximum di scudi tremila: circa ventimila erano le monache: senza prendere la media esatta, supponiamo per abbondare che la dote di ogni monaca sia cinquecento scudi, il fondo dunque delle doti sarebbe di dieci milioni che al cinque per cento dà una rendita di scudi cinquecentomila.
E qui è da notare che le doti non si restituiscono alla famiglia alla morte della monaca, ma restano in beneficio del monastero, quindi questo capitale e suoi rispettivi frutti aumentano di anno in anno.
I quarantamila preti dicono la messa ogni giorno, e non la dicono certamente gratis, ma i laici la pagano. La tassa in Roma è di baiocchi venti per messa; ma sono rari quei preti che stanno alla tassa; feste, mortori funerali, esposizioni, cappelle private, ecc. portano la messa a baiocchi cinquanta e spesso anche ad uno scudo. Ma siccome in provincia si dice la messa anche per quindici baiocchi, così tutto compreso porteremo la media delle messe a baiocchi venti l’ una: avremo dunque ottomila scudi al giorno che i laici si traggono di tasca, per far dire delle messe, la quale somma in un anno forma la ingente somma di due milioni e settecentoventimila scudi, che i laici dell’ antico Stato romano spendevano in messe.
Siamo giusti però: tutti i parrochi sono obbligati nei giorni festivi a dire la messa gratuitamente; i parrochi erano diecimila, le feste si possono calcolare sessanta, ogni anno quindi si debbono defalcare dalla suddetta cifra seicentomila messe che portano la diminuzione di scudi centoventimila, perciò la somma annua rettificata in messe è di due milioni e seicentomila scudi romani. Se si vuole capitalizzare questa rendita darà un capitale di cinquantadue milioni.